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Mediazione giurisprudenziale: la rassegna delle ultime pronunce

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L’anno che sta per chiudersi è stato per la mediazione un anno complesso e articolato, fatto di modifiche normative, ma soprattutto di interventi dei giudici di merito

L’anno che sta per chiudersi è stato per la mediazione un anno complesso e articolato, fatto di modifiche normative, ma soprattutto di interventi dei giudici di merito che hanno contribuito a delineare molti aspetti della mediazione civile e commerciale. Con le recenti pronunce dei giudici di merito potremmo, infatti, sostenere che alla mediazione obbligatoria, alla mediazione facoltativa, alla mediazione delegata dal giudice ed alla mediazione contrattuale o statutaria, si sia aggiunta la mediazione giurisprudenziale quale mediazione che trova la sua disciplina in parte nella legge ed in parte nel provvedimento del giudice.

Le più vivaci dispute interpretative generate dalla promulgazione del D.Lgs. 7 marzo 2010, n. 28, introduttivo del procedimento di mediazione civile e commerciale, si sono manifestate, in modo particolare, nei casi in cui esso costituisce condizione di procedibilità della domanda giudiziale.

Al riguardo, può dirsi, per sommi capi, come le problematiche emerse con maggiore frequenza riguardino:

  • l’esatta individuazione delle controversie in cui il tentativo di conciliazione è obbligatorio;
  • l’identificazione della parte che, in ipotesi di obbligatorietà, è gravata dell’onere di promuovere e di coltivare il procedimento;
  • la descrizione delle attività che devono essere compiute affinché la condizione di procedibilità possa reputarsi integrata;
  • l’accertamento delle conseguenze derivanti dal mancato assolvimento di tale onere in pendenza del processo civile.

Non v’è da stupirsi che siano queste le tematiche su cui si rinvengono i più diffusi e numerosi precedenti giurisprudenziali in termini, atteso che le stesse sono intimamente e profondamente collegate alla possibilità di introdurre e di proseguire il processo civile e, dunque, vengono costantemente sottoposte a valutazione dai nostri Giudici contestualmente (anzi, preventivamente) alla delibazione delle domande giudiziali. Di converso, le questioni attinenti il solo svolgimento del procedimento di mediazione, nella normalità dei casi, non si riversano, quantomeno nell’immediatezza, sul processo, di guisa che, il più delle volte, non sono destinate ad essere sottoposte al sindacato giudiziale, se non tramite l’impugnazione dell’accordo amichevole eventualmente raggiunto tra i contraenti.

Altrettanto prevedibile è la natura spesso creativa delle decisioni intervenute sull’argomento, determinata (e forse giustificata) dalla carenza di indici normativi idonei a superare eventuali incertezze interpretative e dall’inserimento della disciplina sulla mediazione in un corpo normativo non organicamente inserito nel – o, comunque, non armonicamente collegato al – codice di rito. D’altro canto, l’istituto della mediazione, proprio perché orientato alla deflazione del contenzioso giudiziale, è stato preconizzato con particolare attenzione per i benefici ai contraenti dalla stipulazione dell’accordo amichevole, trattando le possibili interferenze con il processo civile quale problematica marginale e di scarso rilievo; in altri termini, la propensione ad offrire ai consociati uno strumento di A.D.R. duttile ed efficace pare aver suggerito al legislatore di non definire con eccessivo rigore formale gli obblighi e gli oneri delle parti, ivi comprese, pertanto, le questioni attinenti alla procedibilità della domanda giudiziale, lasciando conseguentemente all’interprete un maggiore libertà nel risolvere simili problematiche.

I casi di obbligatorietà del tentativo di mediazione.

Prima di analizzare la specifica disciplina riservata dal D.Lgs. n. 28/2010 alla fattispecie della mediazione obbligatoria, con riguardo tanto alla tecnica normativa impiegata dal legislatore, quanto al contenuto delle singole previsioni normative, è opportuno spendere alcune riflessioni di natura metodologica, sovente poste in secondo piano dalla prassi giurisprudenziale.

Infatti, la pesantezza dei ruoli giudiziari, in uno con l’affidamento risposto nella capacità del mediatore di persuadere i contendenti al raggiungimento di una soluzione transattiva, induce talvolta i Giudici ad apprezzare in termini piuttosto estensivi il catalogo di materie sottoposto alla condizione di procedibilità oppure a disporre iussu iudicis la mediazione, avvalendosi del potere agli stessi accordato dall’art. 5, comma II, del D.Lgs. n. 28/2010 nell’ipotesi in cui la natura della causa, lo stato dell’istruzione ed il comportamento delle parti rendano probabile la bonaria composizione della lite.

È doveroso domandarsi se il descritto favor mediationis, qualora traspaia dall’analisi delle decisioni in materia (cfr.: Trib. Prato, 16 gennaio 2012, nella quale l’attenzione privilegiata alla mediazione viene argomentata in forza del dovere del capo dell’ufficio giudiziario di controllare l’effettivo e serio svolgimento delle attività di mediazione esercitate nel relativo circondario), riposi su una solida base normativa o, comunque, su principi di carattere generale e, parallelamente, possa fungere da canone ermeneutico per la risoluzione delle fattispecie dubbie, incerte o ambigue.

La risposta sembrerebbe negativa per un duplice ordine di considerazioni.

In primo luogo, le condizioni generali di procedibilità, determinando la compressione del diritto all’azione giudiziale e ponendo a repentaglio la ragionevole durata del processo (valori tutelati, rispettivamente, dagli artt. 24 e 111 Cost.), sono ammesse soltanto se necessarie – o, quantomeno, tangibilmente utili – per la protezione di un bene costituzionale di eguale importanza e, in ogni caso, non possono che integrare delle norme eccezionali, soggette, in quanto tali, alla sola interpretazione letterale e restrittiva.

Tale bene giuridico, idoneo a temperare il diritto alla tutela giurisdizionale, viene individuato dalla Corte Costituzionale nell’interesse generale al soddisfacimento più immediato delle situazioni sostanziali realizzato attraverso la composizione preventiva della lite rispetto a quello conseguito attraverso il processo (sentenze n. 407 del 21 novembre 2007; n. 199 del 5 giugno 2003; n. 276 del 13 luglio 2000; n. 165 del 31 maggio 2000; n. 161 del 31 maggio 2000; n. 336 del 24 luglio 1998; n. 190 del 28 giugno 1985, 1274; ordinanze n. 179 del 10 maggio 2002; n. 217 del 19 giugno 2000). Da ciò deriva l’automatica incostituzionalità delle norme che subordinino l’esperimento dell’azione cautelare all’esperimento del procedimento di mediazione, non essendo ragionevolmente ipotizzabile che l’apertura di un tavolo di trattative possa garantire la soddisfazione delle situazioni giuridiche sostanziali in maniera più celere rispetto al processo cautelare).

È alla stregua di tali principi che le più sofisticate pronunzie giurisprudenziali in termini hanno escluso dall’obbligo di mediazione le azioni revocatorie ordinarie ex art. 2901 c.c., ancorché incidano su atti traslativi di diritti reali (Trib. Varese, 20 dicembre 2011; Trib. Varese, sez. I, 10 giugno 2011), nonché la domanda di risarcimento del danno da diffamazione commessa, siccome perpetrata, secondo le allegazioni di parte attrice, tramite la spedizione di messaggi telefonici, piuttosto che con l’impiego della stampa o di altro mezzo di pubblicità (Trib. Pavia, 27 ottobre 2011).

La giurisdizione condizionata, da un’altra prospettiva, costituendo il frutto dell’apposizione di limiti e di ostacoli all’esercizio dell’azione giudiziale, non può che presentarsi quale istituto assolutamente eccezionale, sorretto dal principio di tipicità e mai ricostruibile con un’interpretazione creativa delle norme specificamente riferite ad altre materie.

Anzi, parrebbe ragionevole interrogarsi sulla legittimità costituzionale della scelta, operata dal legislatore all’art. 5, comma I-bis, del D.Lgs. n. 28/2010, di prevedere incondizionatamente l’obbligo di mediazione per talune tipologie di controversie, astenendosi dal contemplare dei giusti motivi in presenza dei quali l’onere in questione può essere legittimamente eluso.

Allo stesso modo, è legittimo sollevare perplessità sui canoni adoperati dal legislatore per selezionare la tipologia di cause sottomesse alla condizione di procedibilità che, sulla base di una valutazione estremamente approssimativa, parrebbero fondarsi sui connotati soggettivi di talune parti coinvolte (per ciò che concerne i contratti bancari ed assicurativi, in ordine ai quali la capienza di uno dei contraenti potrebbe esser stata intesa quale catalizzatore per il raggiungimento di intese conciliative) oppure sulla natura tendenzialmente bagatellare di alcune controversie (come quelle in materia di condominio, divisione e risarcimento del danno da diffamazione a mezzo stampa). Parimenti, non è chiaro come possa armonizzarsi con il principio di uguaglianza la disparità di trattamento che si viene a creare fra parte istante e parte invitata, nella misura in cui la prima, nelle materie di cui all’art. 5, comma I-bis, del D.Lgs. n. 28/2010, è tenuta, in ogni caso, ad avviare e a coltivare il procedimento di mediazione, quando la seconda è autorizzata a disertarlo per giustificati motivi ex art. 8, comma IV-bis.

In secondo luogo, la locuzione “chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa a una controversia in materia di”, contenuta nella previsione normativa in parola nella parte immediatamente anteriore all’elencazione delle cause assistite dall’obbligo di mediazione, sembra anch’essa militare avverso un’interpretazione espansiva della stessa.

Non è, infatti, l’oggetto della causa, ma la sola materia del contendere (con esclusione, pertanto, delle questioni che, pur attenendo al thema decidendum, non rappresentino la ragione scatenante il processo), a definire il perimetro di applicazione della condizione di procedibilità.

Ben più ampie ed elastiche sono, a tutta evidenza, le norme istitutive di altri tentativi obbligatori di conciliazione.

Ad esempio:

l’art. 1, comma XI, della legge 31 luglio 1997, n. 249 attribuisce all’Autorità per le garanzie nella nelle comunicazioni il potere di disciplinare “con propri provvedimenti le modalità per la soluzione non giurisdizionale delle controversie che possono insorgere fra utenti o categorie di utenti ed un soggetto autorizzato o destinatario di licenze oppure tra soggetti autorizzati o destinatari di licenze tra loro”;

l’art. 10 della legge 18 giugno 1992, n. 198, stabilisce che “le controversie relative ai contratti di subfornitura di cui alla presente legge sono sottoposte al tentativo obbligatorio di conciliazione presso la camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura nel cui territorio ha sede il subfornitore”.

Alla luce di ciò, appare doveroso attribuire alle materie ex art. 5, comma I-bis, un significato fortemente ancorato al dato letterale, sottraendo all’obbligo di mediazione controversie che, soltanto indirettamente si associano alle fattispecie tassativamente contemplate. Così, parrebbero liberamente azionabili in giudizio:

  • – i contratti preliminari;
  • – i contratti misti o atipici, la cui struttura intrinseca contenga frammentariamente elementi della causa di uno dei contratti menzionati dalla norma (ad esempio, i contratti di noleggio, di rent to buy, di rimessaggio o di posteggio di autoveicoli, ancorché possano sommariamente assimilarsi alla locazione o al comodato);
  • – le transazioni intervenute su uno dei titoli negoziali o delle domande di risarcimento per cui la mediazione è obbligatoria, come l’azioni di rescissione per lesione ex art. 764 c.c. delle transazioni divisorie stipulate per la definizione dei diritti nascenti dalla successione o dalla divisione;
  • – le richieste risarcitorie contro assistenti sociali che non esercitano la professione medica o sanitaria.

Una riflessione meritano i processi introdotti tramite l’esperimento di mezzi straordinari di impugnazione contro la sentenza che dirima una controversia su una delle materie per cui è sancito l’obbligatorio esperimento del procedimento di mediazione, qualora, s’intende, la condizione di procedibilità non si sia già perfezionata nei giudizi conclusisi con la decisione impugnata.

La questione è stata affrontata, e risolta in senso affermativo, in una revocazione straordinaria ex art. 395, n. 1), c.p.c. di un’ordinanza di convalida di sfratto, in cui l’impugnante lamentava che la decisione sarebbe stata emessa a causa del comportamento doloso adottato ai suoi danni dalla controparte (Trib. Roma, 21 gennaio 2015).

È ragionevole ritenere, peraltro, che, nel caso di specie, la mediazione non potesse essere neppure delegata iussu iudicis, essendo in virtù dei poteri ex art. 5, comma II, atteso che, per quanto concerne i giudizi di impugnazione, simile prerogativa è consentita nel solo processo d’appello.

È vero sì che l’art. 400 c.p.c., a mezzo di disposizione di carattere generale, stabilisce che, innanzi al giudice della revocazione, si osservano le norme stabilite per il procedimento davanti a lui in quanto non derogate da quelle specificamente riferite a tale mezzo di impugnazione; tuttavia, è lecito ritenere che l’art. 5, comma II, del D.Lgs. n. 28/2010, nella parte in cui circoscrive la mediazione iussu iudicis ai soli giudizi di primo grado e d’appello, sia destinata a prevalere sull’art. 400 c.p.c., siccome cronologicamente posteriore, nonché dotata di caratteri di specialità.

Simile decisione, peraltro non diffusamente argomentata, ma fondata alla stregua della mera riconducibilità della materia del contendere al catalogo ex art. 5, comma I-bis, non appare condivisibile, se sol si consideri come l’improcedibilità debba essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza (che non può che essere quella del giudizio di primo grado), dovendo altrimenti reputarsi sanata.

V’è, poi, un’altra ragione, questa volta di carattere sistematico, che sconsiglia (se non impedisce) al Giudice di delegare la mediazione in siffatto contesto processuale. Infatti, essendosi già formato un giudicato sulla res controversa, non ancora scalfito dall’eventuale sentenza di revocazione, un ipotetico accordo amichevole raggiunto dalle parti in sede di mediazione disposta iussu iudicis potrebbe essere affetta dallo speciale vizio di annullabilitàex art. 1974 c.c., quantomeno qualora si ritenesse che, ai fini di questa norma, l’ignoranza del giudicato sia equiparabile alla convinzione della parte soccombente circa la revocabilità della sentenza definitiva. Senza contare, poi, che, anche qualora l’art. 1974 c.c. non dovesse ritenersi applicabile, non sarebbe così insensato assumere l’annullamento per dolo determinante ex art. 1439 c.c. dell’accordo amichevole che la parte penalizzata dalla sentenza sia stata costretta a stipulare per prevenire conseguenze ancor più deleterie.

Pertanto, è plausibile assumere che il Giudice, proprio in ragione del particolare stadio processuale in cui si trova la controversia, non possa ritenere che l’esperimento del tentativo di mediazione possa permettere alle parti di raggiungere l’intesa e, dunque, di produrre gli effetti sostanziali che, tramite lo strumento giurisdizionale, sarebbero conseguibili con maggior dispendio di tempi e di energie.

La parte onerata di promuovere e di coltivare il procedimento di mediazione.

Se appaiono piuttosto evidenti i motivi per cui l’onere di espletare il tentativo di conciliazione è stato posto in capo a “chi intende esercitare in giudizio un’azione”, non è così chiaro chi rivesta tale qualità nei giudizi genericamente impugnatori, promossi cioè allo scopo di rimuovere un provvedimento giudiziale sfavorevole all’istante.

Il caso di più frequente verificazione è rappresentato dal processo di opposizione a decreto ingiuntivo, nel quale, come noto, si verifica un’inversione fra i ruoli formali e sostanziali rivestiti dalle parti, nel senso che è il debitore a ricoprire il ruolo di attore ed il creditore, resistendo alla richiesta di revoca del provvedimento monitorio, ad assumere la posizione processuale di convenuto.

Sul punto, gli interpreti sono divisi.

Secondo l’orientamento maggioritario, è l’opponente, quale attore in senso formale, nonché titolare dell’interesse ad evitare l’estinzione del giudizio a cognizione piena, che renderebbe intangibile il decreto ingiuntivo opposto ai sensi dell’art. 653, comma I, c.p.c. (la tendenziale equiparazione fra decreto ingiuntivo non opposto o irritualmente opposto e sentenza passata in giudicato è predicata dalla giurisprudenza di legittimità valorizzando il principio della ragionevole durata del giudizio: Cass. civ., sez. I, 3 marzo 2004, n. 4294; Cass. civ., sez. II, 26 gennaio 2000, n. 849, l’unico soggetto onerato di provocare il perfezionamento della condizione di procedibilità. D’altro canto, assume simile indirizzo ermeneutico, essendo il giudizio di opposizione rimesso alla libera scelta dell’ingiunto, sarebbe paradossale addossare all’ingiungente il compito di attivarsi per consentirne il proseguimento (Trib. Bologna, 20 gennaio 2015, in Giust. civ., 2015, 17 giugno; Trib. Firenze, 30 ottobre 2014; Trib. Rimini, 5 agosto 2014; Trib. Firenze, sez. III, 30 gennaio 2014). Tali principi dovrebbero valere, qualora si condividesse il descritto approccio interpretativo, per tutti i provvedimenti idonei ad acquisire l’autorità di cosa giudicata, come, ad esempio, le ordinanze anticipatorie ex artt. 186-bis e 186-ter c.p.c..

Ad avviso della corrente esegetica minoritaria, invece, la perifrasi “chi intende esercitare in giudizio un’azione”, con la quale il legislatore ha individuato la parte onerata, si riferisca al soggetto depositario della domanda giudiziale, cioè della rivendicazione di carattere sostanziale da cui origina la lite, a prescindere che lo stesso, in ragione della specialità del rito prescelto, assuma il formale vestimentum di attore o di convenuto (Trib. Ferrara, 7 gennaio 2015; Trib. Firenze, 24 settembre 2014; Trib. Varese, sez. I, 18 maggio 2012; Trib. Lamezia Terme, 19 aprile 2012).

Non sarebbe casuale, in questa prospettiva, che la legge non parli né di attore, né di ricorrente, ma utilizzi una espressione che, ancorché più articolata e complessa dal punto di vista letterale, alluda chiaramente ai concetti di domanda e di azione, che, a loro volta, sottintende la categoria del diritto soggettivo. Di converso, la proposizione dell’opposizione costituisce sì un’azione giudiziale, ma è priva di qualsivoglia autonomia perché non è rivolta alla tutela di un diritto soggettivo (salvo che non siano state spiegate richieste in via di riconvenzione), rappresentando unicamente la reazione del debitore all’iniziativa giudiziale introdotta dal creditore.

Peraltro, in una logica equitativa (che, comunque, potrebbe trovare spazio a fini interpretativi a livello di analogia iuris ex art. 12 preleggi), sembra particolarmente iniquo assegnare al debitore, che già ha sofferto l’emissione di un provvedimento inaudita altera parte ed al quale, quindi, è stato garantito il diritto al contraddittorio soltanto in maniera differita, un onere che non trova supporto in un dato normativo dal tenore inequivocabile.

Anzi, seguendo un ragionamento ancor più stringente, si potrebbe insinuare che l’adesione all’avversa ricostruzione creerebbe un’evidente – e razionalmente ingiustificabile – disparità di trattamento fra il creditore che agisca con rito monitorio e quello che preferisca intraprendere il percorso ordinario, con conseguente violazione dell’art. 3 Cost., stante la difficoltà di individuare un valore giuridico tale da privilegiare una situazione creditoria piuttosto che l’altra.

Parimenti, è difficilmente armonizzabile con i principi di uguaglianza e di ragionevolezza l’assunto, implicitamente sostenuto dall’orientamento maggioritario, per cui l’attore che intenda esercitare una delle azioni giudiziali di cui all’art. 5, comma I-bis, possa emanciparsi dall’obbligo di mediazione semplicemente proponendo le proprie domande mediante ricorso per ingiunzione, in luogo dell’ordinario processo a cognizione piena. Non è facile comprendere, in altre parole, come l’ordinamento possa assegnare al consociato il diritto – sostanzialmente potestativo – di sottrarre le proprie rivendicazioni giudiziali agli oneri stabiliti dalla legge, peraltro proprio nei casi in cui esso, optando per il rito sommario, già fruisce di non indifferenti vantaggi. Allo stesso modo, non è agevole individuare la ragione per cui l’interesse pubblicistico alla riduzione del contenzioso giudiziale dovrebbe svanire (o, comunque, assumere un’intensità soltanto recessiva) in ragione della mera decisione del creditore di avvalersi del rito sommario.

Di contro, non sembrano ricorrere ostacoli, né tantomeno manifestarsi timori di illegittimità costituzionale, nell’assegnazione all’opposto del dovere di attivarsi a fini conciliativi, essendo evidente che lo stesso, pur avendo già conseguito il richiesto petitum immediato (ossia l’emanazione del decreto ingiuntivo), ha interesse alla sua conservazione; e, di converso, non appare abnorme che tra gli oneri attribuiti all’opposto (che, non si dimentichi, ha già fruito di un provvedimento a contraddittorio posticipato) figurino anche gli obblighi di mediazione, pena la revoca del decreto nell’ipotesi in cui essi non siano onorati.

D’altronde, visto che il processo di opposizione a decreto ingiuntivo, secondo un insegnamento ormai granitico (Cass. civ., sez. I, 14 aprile 2011, n. 8539; Cass. civ., S.U., 9 settembre 2010, n. 19246), non configura una vera e propria impugnazione ovvero un giudizio di stretta legittimità, ma tende a sovrapporsi ed a sostituire integralmente il procedimento monitorio, allora il Giudice del processo a cognizione piena è comunque tenuto a pronunciarsi sulla fondatezza della domanda spiegata inaudita altera parte dal creditore/opposto e, conseguentemente, dovrà altresì verificare se tale domanda sia ancora proponibile ovvero sia divenuta improcedibile per il mancato avveramento di una condizione legale (ossia l’esperimento del procedimento di mediazione civile e commerciale).

Seguendo lo stesso percorso argomentativo, potrebbe assumersi che, anche nel caso in cui il procedimento di mediazione venga disposto in appello, sia il titolare del diritto sostanziale, ancorché vincitore in primo grado, a doversi attivare conformemente alle richieste del Giudice e che, in difetto di tempestiva assoluzione di tale onere, la sentenza appellata vada riformata in ragione del sopravvenuto difetto della condizione di procedibilità della domanda, mancando la quale nessun giudizio di merito può essere pronunziato.

Fonte: http://www.quotidianogiuridico.it/documents/2015/12/22/mediazione-giurisprudenziale-la-rassegna-delle-ultime pronunce#Laparteoneratadipromuovereedicoltivareilprocedimentodimediazione

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